“Qual è il tuo orizzonte degli eventi?”

Rinascere dai buchi neri con la pratica filosofica.

A cura di Sara Sitzia, counselor filosofico.

Articolo pubblicato sul n. 15 – Maggio 2022 della Rivista Italiana di Counseling Filosofico: https://www.rivistacf.com/_files/ugd/f523f3_79a6d092fe93408caf57a67e406864ac.pdf

«Perché lo hanno chiamato orizzonte degli eventi?» chiese Achille.

«Un evento è un fenomeno fisico osservabile nello spazio e nel tempo, l’orizzonte degli eventi è una zona dello spazio-tempo in cui diventa impossibile osservare il fenomeno. Al centro di questa sfera oscura c’è […] un abisso in cui la gravità è così potente che neanche la velocità della luce riesce a sfuggirle. […]

Anche al centro del nostro essere c’è un buio denso di gravità, attorno al quale la vita accade. La morte chiama le cose alla vita, perché quando tocchiamo la nostra mortalità ogni cellula comincia a lottare per diventare immortale; per questo è bene averci a che fare con il nostro buco nero, perché da come lo affrontiamo dipende tutta la nostra esistenza, tutta la sua luce. Quindi nell’appello di oggi mi racconterete il vostro orizzonte degli eventi, ciò che inghiotte la vostra luce e dal quale vorreste tenervi lontani, ma la forza di gravità è talmente forte che è impossibile sottrarvisi» (D’Avenia, 2020, p.71-72).

Così il professore di Scienze Omero Romeo, protagonista del romanzo di Alessandro D’Avenia introduce, in un giorno d’ottobre, l’appello: attingendo metaforicamente all’espressione orizzonte degli eventi, utilizzata in fisica quantistica per indicare il limite spazio-temporale da cui è osservabile un fenomeno, egli esorta i suoi studenti, in procinto della maturità, a descrivere il buco nero della loro «geografia interiore» (D’Avenia, 2020, p.72), affinché imparino, con il tempo, a non fuggirlo, ma a superarlo e a ritrovare la luce.

Come sapientemente nota Omero Romeo, il mondo della natura è una ricchissima fonte di immagini, che se traslate nel mondo umano, diventano metafore feconde, simboli e specchi di una realtà quotidiana che ci appartiene.

Dal momento in cui veniamo alla luce, la nostra esistenza “gravita” intorno al buco nero per eccellenza, la morte: si pensi alla nota espressione essere-per-la-morte con cui Heidegger ha voluto indicare l’orizzonte di finitudine dell’Esserci esprimendo, con essa, anche la “tensione esistenziale” della condizione umana, la quale è sempre protesa verso la possibilità estrema del “non-poter-più-esserci”. Tuttavia accade altresì che, vivendo, facciamo inevitabilmente esperienza di molteplici buchi neri, fatiche interiori e sofferenze che creano «intransitabili confini» (Natoli, 1986, p.8). Quella del dolore è un’esperienza radicale simile alla morte, come ricorda Salvatore Natoli, «non solo perché ad esso non si può sfuggire, ma perché esso incide in modo determinante sulla valutazione della realtà, sulle decisioni e sul modo stesso di fare esperienza della mondità» (1986, p. 20). Che sia un lutto, una malattia o un evento traumatico di altra natura tale da suscitare in noi una crisi, il dolore assume intensità e forme diverse, ma la sua fenomenologia rimane la stessa: paralizza, “divide” temporalmente la catena degli accadimenti tra un “prima di” e un “dopo di”, genera silenzio e incomunicabilità, ci costringe a percepire la nostra vulnerabilità più profonda.

Attraverso il dolore facciamo sì esperienza del limite, ma al contempo fissiamo – per lo più inconsapevolmente – una linea che diventa il nostro orizzonte degli eventi. Interpretiamo e restituiamo un senso alle cose che accadono in funzione di quel confine e tanto più tentiamo di tenercene distanti, tanto più ci troviamo a ripetere, di fronte alle situazioni, gli stessi schemi di pensiero, ad essere toccati dalle medesime emozioni e, dunque, a reagire negli stessi modi.

La suggestiva metafora proposta nel romanzo svela un terreno specificatamente filosofico, poiché “Qual è il tuo orizzonte degli eventi?” si pone innanzitutto come domanda di indagine esistenziale, laddove la Filosofia venga esercitata e intesa non tanto come strumento speculativo, ma piuttosto come «strumento dell’uomo che gli permette di conseguire il proprio essere» (Zambrano, 1996, p. 171).

Ai fini di una riflessione sul valore trasformativo di un percorso di pratica filosofica, è interessante cogliere l’intrinseca ambivalenza della domanda: se da un lato essa si pone metodologicamente come la questione cardine che interroga la cornice di senso del consultante, dall’altro lato contiene simbolicamente anche la direzione verso cui tende l’indagine riflessiva.

Aiutare il consultante a disporsi filosoficamente nei confronti della propria vita significa, infatti, comprendere il punto d’osservazione nel quale egli si è radicato, ma vuol dire, anche, restituire flessibilità e apertura al suo orizzonte.

Pensiero in movimento e ri-nascita

Se, come si diceva prima, nell’esperienza di dolore è come se la vita si paralizzasse, il superamento della crisi può avvenire solo smussando le rigidità cognitive ed emotive che si sono sedimentate nel tempo diventando le modalità abituali di accesso al mondo. In altre parole, è necessario introdurre movimento, restituire plasticità alla vita, rinnovare il nostro habitus affinché il limite diventi, da confine chiuso qual era, una soglia che apre. D’altra parte lo statuto esistenziale dell’uomo non è riconducibile solo all’essere-per-la-morte, c’è infatti un’altra cifra che gli appartiene: egli è anche un “essere-per-la-nascita”; come ricorda Zambrano, l’uomo è un essere in cammino e «ogni crisi altro non insegna se non questo, che l’uomo è una creatura non formata una volta per tutte e non terminata» (1996, p. 84), pertanto è chiamato a ri-nascere per tutto il corso dell’esistenza. Questa prospettiva di continua nascita si palesa ogni volta che ci si dispone in un atteggiamento trasformativo della propria modalità di vivere, il quale passa, innanzitutto, dal saper accogliere la crisi come una tappa all’interno di un percorso di formazione del nostro essere.

Pensare filosoficamente la vita ha a che fare con un cammino di rinascita, una fioritura di sé in cui il pensiero si “svincola” dalla morsa degli schemi abituali in cui si cristallizza l’esistenza.

Introdurre movimento è proprio ciò che compete al pensiero riflessivo; nell’atto del riflettere il pensiero “si piega all’indietro” – come ricorda l’etimo stesso – e ripercorre l’esperienza ponendola sotto osservazione, ri-considerandola; gli eventi esperiti e interpretati abitualmente in modo pressoché spontaneo e irriflesso, appunto, vengono riesaminati e ri-pensati. La riflessione è trasformativa in quanto cambia il modo in cui le cose ci sono apparse fino a quel momento e consente, quindi, una nuova modalità di accesso all’esperienza, un nuovo cominciamento.

Il pensiero riflessivo messo in atto nella pratica filosofica, restituisce ricchezza semantica alle parole utilizzate per descrivere la propria visione del mondo, ampliandone il significato concettuale e ascoltandone il contenuto emotivo, individua i denominatori comuni sottesi all’agire, cerca le corrispondenze tra il sentire e il conoscere ciò che si sente.

Un pensiero meramente ripetitivo e che non dialoghi con la dimensione emotiva, è un pensiero che rafforza le rigidità e che non prepara ad alcun cambiamento, di contro, il pensare filosoficamente ci dispone in movimento creativo in quanto è capace di creare un orientamento nuovo e di sospingere verso un orizzonte di possibilità rimaste inesplorate.

In conclusione, se c’è un fine cui tende un percorso di pratica filosofica, non può che essere quello di “spostare” il punto d’osservazione, accompagnando la persona in un processo di ri-nascita tale da trasformare il suo modo di vivere e di vedere il mondo: «Se qualcuno riesce davvero a condurre qualcun altro alla Filosofia, si può ben dire che lo ha rigenerato, trasformandolo non da uomo in saggio, ma da un uomo in un altro uomo» (Zambrano, 1996, p.167).

L’orizzonte degli eventi del Signor N.

Il signor N. mi aveva contattato perché sentiva il bisogno di raccontarsi. Era un uomo sulla settantina, sposato da oltre quarant’anni, padre e nonno. Mi disse che si sentiva ansioso, ma che faceva fatica a individuarne il motivo preciso; la moglie gli aveva detto che gli avrebbe giovato il parlare con qualcuno e, alla fine, N. si era deciso a chiedermi aiuto.

Entrò nel mio studio con lo sguardo basso, dimesso: lo invitai a descrivere come si sentiva e a descriversi; raccontò che era stato, fin da ragazzo, un gran lavoratore, tutti i lavori li aveva sempre svolti con grande passione ed entusiasmo; riusciva a trovare soluzioni originali e questo catturava l’attenzione dei suoi superiori. In poco tempo aveva fatto carriera, da operario a responsabile commerciale di un’importante multinazionale. Lo avevano – come lui stesso diceva – letteralmente coperto di soldi e questo agio “lo faceva stare bene e sentire libero di fare ciò che desiderava con facilità”, perché gli permetteva di non far mancare nulla alla sua famiglia, di godere dei viaggi e di aiutare economicamente anche amici in difficoltà. Disse che il suo status sociale gli permetteva di ricevere rispetto dalle persone e che lo faceva sentire utile (alla comunità, agli altri, alla famiglia) e importante. Poi un giorno, il crollo finanziario: aveva deciso di mettersi in società con un socio e, per salvare l’impresa in un momento di crisi, aveva attinto alla maggior parte delle sue risorse personali; contemporaneamente aveva scoperto che il negozio gestito dai figli aveva la contabilità in rosso e aveva cercato di salvare anche quello.

Da allora erano trascorsi oltre dieci anni senza più vacanze, senza più garanzie economiche, contando fino al centesimo il denaro per assicurarsi la copertura delle spese.

Oggi non erano più sul lastrico, “tiravano avanti”, ma lui non era sereno. Ripeteva: “Non sono più quello di una volta, ho sempre paura a chiedere spiegazioni, a dire ciò che penso; una volta, quando parlavo, gli altri si zittivano e mi prendevano in considerazione”.

Gli chiesi, durante i nostri incontri, di provare a spiegarmi cosa intendesse ed emerse che il fatto di essere in difficoltà economica lo avevo reso una persona diversa da quella che era stata, senza valore e senza più importanza. Anche l’identità di padre aveva una forte connotazione economica nel suo linguaggio: per il signor N. “un padre è tale solo se può provvedere economicamente ai figli” al punto che N. non si considerava nemmeno un buon padre e provava un profondo senso di colpa nell’accettare, oggi, del denaro dalla figlia che, anche se di poco, lo voleva aiutare. Solo la moglie – diceva – era l’unica persona che lo faceva sentire importante da sempre, nonostante tutto.

Questo fu un punto cruciale su cui riflettemmo e che mi permise di aiutarlo a vedere il suo orizzonte degli eventi: la ricchezza lo aveva fatto sentire “qualcuno” al punto da essere portato ad attribuire valore alla sua persona in proporzione al possesso economico. Perdendo il denaro, che per N. era “la misura di tutte le cose”, si era condannato a perdere valore di per sé. Il crollo finanziario aveva creato un solco nella sua stessa identità, aveva messo in crisi il suo modo abituale di vedere se stesso e la vita. Per aiutarlo a ri-nascere era necessario ricostruire chi era il signor N.

Così lo portai, passo dopo passo, a riflettere su cosa permane della sua persona se si toglie l’abito del denaro. Rispose che creatività, curiosità, affidabilità e generosità erano – ad esempio – le principali qualità che egli aveva conosciuto di sé lavorando, ma che, in effetti, si rendeva conto, gli appartenevano indipendentemente dal lavoro e dal guadagno; erano, oltretutto, qualità che gli altri gli riconoscevano anche oggi. Così come si stava rendendo conto che avrebbe potuto ancora essere felice, cercando il senso della felicità “fuori” dalla ricchezza. Vedere questo fu, per lui, un primo passo per cominciare a guardare a sé e alla vita con una nuova apertura.

In uno degli ultimi incontri gli venne in mente che da ragazzo – agli albori dei primi lavori – aveva assunto, come motore di ogni sua azione, questo imperativo (lo recitò a memoria): “Lavora per guadagnare ed essere qualcuno!”. Oggi, mi disse, si era reso conto che questo imperativo non aveva più ragion d’essere, lo aveva solo ingabbiato impedendogli di riconoscersi nel suo valore di persona.

bibliografia

D’Avenia A., (2020), L’appello, Mondadori, Milano

Gallagher S., Zahavi D., (2009), The Phenomenological Mind; trad. it. La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, Raffaello Cortina, Milano 2021.

Hadot P., (1995), Qu’est-ce que la philosophie antique? trad. it. Che cos’è la filosofia antica? Einaudi, Einaudi, Torino 1998

Heller Á., (1980) Theorie der Gefühle; trad. it Teoria dei sentimenti, Editori Riuniti, Roma 1980

Natoli S., (1986), L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano

Vantini L., Zucal S., (2019), Nascere, Cittadella Editrice, Assisi

Zambrano M., (1991), Hacia un saber sobre el alma, trad. it. Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996